Intervista alla dottoressa Marta Malacrida, Psicologa e Psicoterapeuta.
Una gravidanza che si spegne è un evento complesso a più livelli. Ogni inizio contiene una porzione di futuro. Cosí, ogni interruzione porta con sé lo squarcio di una fine non attesa. Interrompere significa rompere nel mezzo, rompere anzitempo, rompere senza apparente ragione, rompere senza poter tornare indietro, rompere senza poter capire, almeno all’inizio.
Significa dover rinunciare al desiderio, inteso come spazio e tempo in cui poter coltivare e tenere al riparo una nuova rappresentazione di Sé come genitore, fratello, sorella, nonno, nonna o zio, in cui costruire un legame che prima non c’era e che adesso c’è e, nel suo esserci, sembra poter cambiare il mondo.
Significa scendere a patti con l’impotenza e la mancanza di controllo. Significa toccare con mano come tutto può cambiare in una manciata di secondi. Significa incontrare o scontrarsi con un dolore profondo che affonda le radici nella mente e nel corpo.
Per queste, e per molte altre ragioni, l’interruzione di una gravidanza assume le sembianze di una ferita che lacera e che può configurarsi come esperienza potenzialmente traumatica, se consideriamo il trauma come qualcosa che rompe l’equilibrio e la continuità dell’esperienza del soggetto parandosi di fronte come evento improvviso, violento nel senso di inatteso e incomprensibile, almeno ad una prima occhiata.
Eventi cosí portano con sé trasformazioni, nel bene e nel male.
Gli esiti di queste trasformazioni e cioè quanto questa esperienza possa minare profondamente la possibilità di recuperare il proprio equilibrio e il proprio benessere, dipendono da tantissime variabiali su cui è difficile soffermarsi in questa sede. Per brevità, scelgo di indicarne due: una che c’entra e si configura come fattore prottettivo per l’elaborazione dell’esperienza in senso non traumatico, e una che, invece, a mio parere, non c’entra.
La possibilità di rielaborare in senso non traumatico una gravidanza che si spegne credo c’entri con la possibilità di mettere parole e senso dentro un’esperienza che appare, a prima vista, tutt’altro che simbolizzabile: inserire l’esperienza dell’interruzione dentro una storia che collega il prima con il dopo e che permette, con il tempo che ci vuole, di ripensare al futuro come luogo del desiderio mi sembra un fattore protettivo preziosissimo da tutelare.
Al contrario, non credo nella gerarchia del dolore. Non credo, cioè, esistano lutti di serie A e di serie B. In questo senso, tra le variabili che possono influenzare l’entità delle conseguenze che un’interruzione può portare non credo c’entri, in senso stretto, l’età gestazionale in cui avviene l’interruzione. Qualsiasi sia il momento in cui accade, una gravidanza che si spegne si configura come dolore profondo e straniante strettamente collegato all’investimento affettivo, quello che Cranley (1981) ha definito attaccamento prenatale, che si è costruito con quel bambino o quella bambina, con quel progetto di genitorialità, con quella rappresentazione di Sé e con dettagli preziosi della vita affettiva di una persona.
Mi sono immaginata l’irrompere di un lutto perinatale come l’arrivo, in una famiglia, di un ospite inatteso e indesiderato. Questo ospite è il dolore che il lutto necessariamente porta con sé.
Il Dolore bussa alla porta e chiede di entrare. E bussa tanto più forte e in modo incontrollato quando il lutto è cosí improvviso, impensato e insensato. Come reagisce la famiglia a questo ospite? Apre la porta, lo fa entrare, lo fa accomodare? Cerca il modo di sopportarlo supportandosi a vicenda: unendo le forze, dividendo i pesi e facendo staffetta?
E, magari, dopo un po’ si scopre incuriosita dall’ospite: forse ha anche un messaggio per noi? Oppure si barrica in casa, spranga le porte e le finestre, ostruisce ogni possibilità di accesso? Lo chiude fuori e non lo fa entrare nell’esperienza e nella storia della propria famiglia? Oppure ancora, all’arrivo del dolore, qualcuno fugge dalla finestra lasciando il malcapitato che ha aperto la porta da solo a gestire l’ospite ingombrante e fastidioso?
Sono tante le possibili reazioni che una famiglia, intesa come entità complessa, può mettere in campo e molte di queste rimangono inconsapevoli se non c’è la fortuna di poterle vedere. Di certo, l’impatto che questo ospite inatteso può avere sull’equilibrio di una famiglia, nucleare e allargata, di una coppia di coniugi e di genitori, è potente e pervasivo.
Lascia tracce che possono diventare strade se attraversate con coraggio, ma talvolta possono scavare solchi cosí profondi da diventare trappole in cui si rimane incastrati. Ci sono lutti che spazzano via la possibilità di sentirsi, ancora, famiglia.
Ci sono lutti che congelano. Ci sono lutti che vengono nascosti e sotterrati e che apparentemente diventano silenti.
Ci sono lutti che tornano, dopo mesi, dopo anni, persino dopo generazioni. Ma ci sono anche lutti che tracciano strade impensabili in cui le famiglie possono conoscersi meglio e imparare ad amarsi meglio.
Questo è un aspetto importante e delicato, a cui non sempre viene data la giusta importanza. Essere fratello e sorella maggiore o minore di un bambino o di una bambina volato via troppo presto è un ruolo complesso. Lo è per i fratelli e le sorelle maggiori che attraversano il lutto insieme alla famiglia. E lo è anche per i bambini e le bambine che arrivano dopo una perdita. In ogni caso, questi bimbi necessitano uno sguardo attento, orientato emotivamente, speciale. Ho dedicato buona parte del mio libro “Lutto prenatale e perinatale. Suggerimenti e spunti operativi per aiutare i bambini ad affrontare la perdita” (FrancoAngeli, 2019) al tentativo di allenare questo sguardo per coglierne tutte le possibili angolazioni. Si tratta di un percorso che inizia dalla comunicazione della notizia, dalla scelta delle parole per dire la perdita e la morte, ma che non finisce lí.
Quello è solo l’inizio di un percorso, di una strada, difficile ma ricchissima, da fare insieme per prendersi cura del cuore, del corpo e della mente di un bambino in lutto. Nel libro ho provato a descrivere tutti questi ambiti e, proprio scrivendo, ho scoperto quanto possa essere una strada densa di opportunità.
Rispetto al coinvolgimento dei fratellini e delle sorelline ho pochi dubbi: sono certa che sia necessario trovare il modo per accompagnarli in un territorio fatto di verità, di condivisione e di scoperta.
I bambini devono essere coinvolti e resi partecipi, certo cercando il modo, le parole e il tempo che le loro orecchie e il loro cuore possono accogliere. Le motivazioni che tengono lontani i bambini da temi o emozioni difficili spesso hanno a che fare più con le difficoltà e le paure, comprensibili e naturali ma non per questo granitiche, degli adulti che non con la possibilità dei bambini di attraversarli. Nel lutto perinatale è tutto molto complicato, prima di tutto perché i genitori devono, contemporaneamente, attraversare il proprio dolore e prendersi cura di quello degli altri figli che sono con loro.
E i figli, dal canto loro, spesso, possono vivere una molteplice perdita: quella del fratellino o sorellina che stavano aspettando, quella del futuro che avevano cominciato a tratteggiare nella mente e nel cuore e, per un po’, anche dei genitori per come li avevano conosciuti fin lí e che ora sono trasformati dal dolore della perdita. È un viaggio complicato, ma un viaggio da compiere, insieme. Il mio auspicio è quello di fare di tutto affinchè questi bambini o ragazzi non debbano affrontare, oltre alle perdite descritte, un’ulteriore perdita che sarebbe gravissima: l’occasione di dare significato e parola a quanto accaduto a loro, ai loro fratelli e alla loro famiglia.
Credo che sia uno dei più grandi regali che si possano fare ai bambini, alle bambine e ai ragazzi: offrirgli la mano e attraversare insieme un territorio complesso ma fatto di verità, rispetto e consapevolezza.
Quando è capitato a me, quando ho dovuto attraversare un lutto perinatale, dopo il dolore accecante e sordo, ho cominicato a sentire la necessità di inserire parole, significati, racconti, narrazioni, immagini.
Ho sentito il forte bisogno di raccontare della mia bambina, fare memoria, tessere fili, offrirmi la possibilità di comprendere cosa fosse accaduto a me, a lei e alla mia famiglia.
Ho letto. Ho chiesto aiuto alla mia terapeuta. Ho scritto cosí tanto da non avere più parole. Ho frequentato un corso di ukulele e di “disegno brutto”.
Ho imparato a meditare e sono rimasta ad ascoltare il vento per ore.
Ho fatto cose che mai avrei pensato di poter fare.
Ho aperto le porte al Dolore e ho imparato cosí tanto che non sono più la stessa persona. Non potrei più esserlo. Ne avevo la necessità ma non avevo voglia di farlo.
Non è semplice, è rivoluzionario. È necessario aspettare, non avere fretta. Richiede pazienza e grazia. Ha qualcosa di innaturale e, contemporaneamente, rappresenta il viaggio più autentico che abbia mai conosciuto.
So che ognuno deve fare la sua strada ed è importante che ognuno trovi la sua.
Ma so anche che non si può fare tutto da soli.
Per questo non mi sento di dare indicazioni se non quella di non cedere al silenzio, alla paura e alla disperazione intesa come assenza di speranza. Qualsiasi sia lo strumento scelto deve parlare la lingua della veritá, della conoscenza e della possibilità di trasformazione.
“Anche la perdita perinatale può divenire esperienza che promuove la crescita, il benessere e la resilienza.” Dottoressa Marta Malacrida
Dottoressa Marta Malacrida, Psicologa laureata presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca e iscritta all’Ordine degli Psicologi della Lombardia.
Psicoterapeuta diplomata presso la scuola di Psicoterapia dell’Adolescente e del Giovane Adulto A.R.P.Ad-Minotauro di Milano.
Esperta in Psicodiagnostica con Master annuale presso IRPSI Istituto Italiano Rorschach e Psicodiagnostica Integrata, Milano. Psicologa scolastica. Terapeuta EMDR.
www.centrodinamicamente.com
Autrice del libro "Lutto prenatale e perinatale: Suggerimenti e spunti operativi per aiutare i bambini ad affrontare la perdita", Franco Angeli Edizioni 2019
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